Bruxelles – L’Ue aspetta l’Ungheria al varco. È il messaggio che la Commissione manda al Paese mitteleuropeo, osservato speciale per le violazioni dello Stato di diritto. Ad impensierire maggiormente l’esecutivo comunitario non sono tanto le restrizioni sui diritti civili – contro i quali il primo ministro Viktor Orbán sta conducendo una vera e propria crociata (si veda alla voce Budapest Pride) – quanto l’iter parlamentare di una legge che, se adottata, permetterà al governo di mettere a tacere organizzazioni ed entità finanziate dall’estero. Proprio come accade nella Russia di Vladimir Putin.
A Bruxelles sembra avvicinarsi sempre più il redde rationem (resa dei conti) con l’Ungheria. Il Berlaymont sta chiedendo al governo di Budapest di “ritirare il disegno di legge sulla trasparenza nella vita pubblica“, come reiterato anche oggi (26 maggio) dai portavoce della Commissione. “Seguiamo attentamente gli sviluppi”, dicono, sottolineando che se la legge venisse adottata “ci sarebbe una grave violazione dei princìpi e delle leggi europee”. In caso di approvazione definitiva da parte del Parlamento magiaro, il Collegio “non esiterà a prendere le decisioni necessarie”, garantiscono.
A preoccupare così tanto l’esecutivo a dodici stelle è il disegno di legge dal titolo “trasparenza della vita pubblica“, presentato un paio di settimane fa da Fidesz, il partito del primo ministro Viktor Orbán, all’Assemblea nazionale di Budapest. Il provvedimento darebbe al governo l’autorità di congelare i finanziamenti provenienti dall’estero per ong, media e altre entità che dovesse ritenere come delle minacce alla sovranità nazionale, in base a delle “liste nere” compilate dal controverso Ufficio per la protezione della sovranità.

Il timore di Bruxelles è che il Parlamento di Budapest stia per adottare un provvedimento che ricalca un po’ troppo da vicino una legge in vigore nella Russia di Vladimir Putin, che ufficialmente prende di mira i cosiddetti “agenti stranieri” ma che di fatto imbavaglia il dissenso contro il regime dello zar mettendo fuori gioco qualunque tipo di contropotere indipendente.
“La Commissione attribuisce grande importanza alla società civile ed è impegnata per proteggere il diritto di associazione“, sottolineano i portavoce, ricordando che l’Ungheria è già stata deferita alla Corte di giustizia Ue (Cgue) l’anno scorso proprio “perché l’Ufficio per la sovranità e le sue indagini sono in violazione del diritto comunitario“. Lo scontro frontale sembra inevitabile, dato che il governo magiaro non sembra intenzionato a fare marcia indietro, e l’Eurocamera sta tirando la giacca a Ursula von der Leyen perché chieda alla Corte delle misure provvisorie urgenti.
L’altro binario su cui in questo momento si misura la temperatura dello scontro tra Ue e Ungheria è quello relativo all’annunciato annullamento del Pride di Budapest, anche se qui l’approccio di Bruxelles è più freddo. “Sono le autorità nazionali che decidono sui raduni, sulle dimostrazioni e sulle manifestazioni“, si limitano a commentare dal Berlaymont. Dunque, se il governo vuole bandirle proceda pure. Gli organizzatori del Pride possono richiedere l’autorizzazione al Comune con un anticipo non superiore ad un mese: essendo la marcia fissata per il 28 giugno, nelle prossime ore si entrerà nel vivo della vicenda.
Contro l’Ungheria di Orbán è attiva dal 2018 una procedura ex articolo 7 del Trattato, su iniziativa dell’Eurocamera, per presunta violazione del diritto comunitario, dei valori fondamentali dell’Ue e dello Stato di diritto. E proprio su questa procedura si terrà al Consiglio Affari generali di domani (27 maggio) l’ottava audizione del governo magiaro, i cui rappresentanti saranno interrogati dai ministri dei Ventisette e dalla Commissione per ottenere informazioni aggiornate sullo stato dell’arte, anche se non c’è da aspettarsi alcuna svolta particolare.

Negli ultimi tempi, tuttavia, la misura contro l’uomo forte di Budapest sembra essersi colmata trasversalmente. I membri dell’emiciclo di Strasburgo sono da sempre i critici più vocali dell’autoritario leader ungherese: il mese scorso una missione di monitoraggio si è recata nella capitale magiara per valutare la situazione sul campo, mentre la scorsa settimana un gruppo di 26 eurodeputati ha chiesto alla Commissione di congelare immediatamente tutti i fondi europei destinati all’Ungheria. Attualmente, ci sono circa 18 miliardi di euro bloccati sotto diverse linee di credito, dai fondi di coesione ai pagamenti del Pnrr.
Ora, si sta allungando anche la lista degli altri Stati membri ormai stufi del continuo ostruzionismo di Orbán, soprattutto (ma non solo) rispetto al dossier Ucraina. Ma, sostengono fonti comunitarie, non si è ancora raggiunto il livello necessario di consenso politico per procedere ad un voto in seno al Consiglio: per attivare il cosiddetto “braccio preventivo” dell’articolo 7 c’è una soglia dei quattro quinti, cioè 22 Stati membri su 27, ma al momento sarebbero d’accordo solo in 19.
L’ultimo in ordine cronologico a puntare il dito contro i cavalli di Troia del Cremlino – il premier ungherese e il suo omologo slovacco Robert Fico – è stato il cancelliere tedesco Friedrich Merz, invertendo la tradizionale freddezza di Berlino sulle violazioni del Paese mitteleuropeo. Il leader della Cdu ha osservato oggi che “se continuiamo su questa strada non potremo evitare un conflitto” (legale, s’intende) con Budapest e Bratislava, spingendosi a suggerire la possibilità “di ritirare loro i fondi europei“, come richiesto dagli eurodeputati.